Ponza è la maggiore delle Isole Ponziane (il cui arcipelago comprende anche le isole di Gavi, Zannone, Palmarola, Ventotene e Santo Stefano) ed è situata nel Golfo di Gaeta (nel Mar Tirreno), 21 miglia nautiche a sud di Capo Circeo. Appartiene alla provincia di Latina, nel Lazio.

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Geografia

Ponza ha una superficie di 7,5 km² ed è quasi completamente montuosa: sovrastata al centro dai monti Core (201 m), Tre Venti (177 m) e Pagliaro (177 m), raggiunge la massima altitudine con i 280 m del monte Guardia, posto all’estremità meridionale dell’isola. Le sue spiagge sono frastagliate e per lo più rocciose, composte da caolino e tufi, a dimostrazione (insieme con i numerosi crateri vulcanici spenti ma tutt’oggi riconoscibili) dell’origine vulcanica dell’isola. La presenza di grotte sottomarine e di scogliere richiamano ogni anno migliaia di appassionati subacquei, oltre ovviamente a bagnanti, che prediligono la celebre spiaggia di Chiaia di Luna (a sud-ovest), circondata da un’alta scogliera a picco sul mare.
Famosi sono anche la Scogliera e i Faraglioni di Lucia Rosa, che prendono il nome dalla protagonista di una tragedia realmente accaduta nel XIX secolo. Lucia Rosa era una giovane donna di diciannove anni, innamorata di un misero contadino ma impedita a sposarlo per l’opposizione della famiglia: la ragazza, in preda alla disperazione, si suicidò gettandosi dall’alta scogliera, che venne ribattezzata in suo nome dagli abitanti del posto.
La forma dell’isola è stretta e allungata, e si estende dal Faraglione La Guardia, a sud, alla Punta dell’Incenso, a nord-est, che dà sulla vicina Isola di Gavi; quest’ultima è separata da Ponza da un braccio di mare di appena 120 metri.
La vegetazione è tipicamente mediterranea, con prevalenza di agavi, fichi d’India e ginestre.

Storia

L’isola di Ponza è popolata fin dal Neolitico, ma i suoi principali centri nacquero sotto la dominazione dei Volsci. Occupata in un primo tempo dai Fenici, che la adibirono a scalo commerciale, nell’VIII secolo a.C. fu colonizzata dai Greci, cui è attribuibile un ipogeo funerario e, secondo numerosi storici, l’acquedotto di Le Forna. Anche il nome deriverebbe dal greco antico Pòntos, Πόντος o Pontia, Πόντια.
Nel 312 a.C. giunsero i Romani che destinarono Ponza per lo più a luogo di confino, ma anche di villeggiatura. Restano infatti rovine di ville romane, la più famosa delle quali è posta sulla Collina della Madonna e risale al I secolo d.C., nonché di un acquedotto, di vasche (tra cui le Grotte di Pilato) e di una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana, il cosiddetto “Bagno”. Negli anni ottanta inoltre fu scoperto il relitto di un’antica galea romana, probabilmente naufragata nel I secolo d.C., che trasportava vasellame e provvigioni alimentari. La tradizione vuole che in epoca romana le sia stato attribuito il nome, in onore del governatore di Giudea Ponzio Pilato, ma Strabone, che già la chiamava Pontia definendola isola dei Volsci, è morto prima che Ponzio Pilato fosse governatore della Giudea.
Nel medioevo rimase un fiorente centro religioso (nel 537 morì nella vicina Palmarola papa Silverio, che tutt’oggi è patrono del Comune di Ponza, festeggiato il 20 giugno) e commerciale, grazie all’opera dei monaci benedettini, i quali eressero l’abbazia di Santa Maria. Ma l’opera dei frati fu pressoché vanificata quando, a partire dal IX secolo, Ponza fu oggetto di feroci razzie da parte dei pirati saraceni.
Solo nel 1202 l’isola tornò all’antica importanza, grazie alla Bolla con cui papa Innocenzo III riaffidò ai frati cistercensi l’abbazia di Santa Maria, la quale nel 1233 venne “incorporata” nella Basilica di Sant’Anastasia al Palatino fuori le mura di Roma. Nel 1300 le acque di Ponza furono teatro della battaglia navale con cui Ruggero di Lauria, duca di Calabria, sconfisse l’ammiraglio Corrado Doria, al soldo del re di Sicilia Federico III di Aragona. Una nuova battaglia ebbe luogo nel 1435, al momento dell’assedio di Gaeta di quell’anno, quando l’ammiraglio genovese Biagio Assereto, per la casata degli Angioini, sconfisse la flotta di Alfonso I re d’Aragona, che iniziava a nutrire mire di conquista dell’isola.
In effetti Ponza, che nel 1322 era passata alle dipendenze dell’abbazia di Fossanova (con la bolla di papa Onorio III), nel 1454 fu occupata dagli Aragonesi, che scacciarono i monaci cistercensi dall’isola: questi, rifugiatisi a Formia, fondarono la chiesa di Santa Maria di Ponza.
Nel 1542 Carlo V, re di Spagna e imperatore, concesse in feudo l’isola a Pier Luigi Farnese (parente con i Duchi di Parma, che ne erediteranno il titolo su Ponza), con l’obbligo di difenderla dagli attacchi pirateschi, che mai del tutto erano cessati. Dopo che nel 1534 il saraceno Khair-ad-Din (conosciuto come il “Pirata Barbarossa”) aveva messo a ferro e fuoco l’isola, nel 1552 una nuova incursione, compiuta dal corsaro Dragut, portò morte e distruzione a Ponza. Nel 1655 si verificò un’ulteriore feroce razzia compiuta dai turchi, i quali fecero pure saltare la torre del porto.
Dopo un breve periodo di presidio austriaco, nel 1734 Elisabetta Farnese, madre di Carlo III di Spagna re di Napoli, cedette l’intero arcipelago delle Ponziane al figlio, il quale rese le isole beni privati della corona e ne avviò un’intensa colonizzazione, facendovi pervenire coloni soprattutto da Ischia. Tra i principali obiettivi borbonici vi fu anche la difesa dagli attacchi corsari: nel 1757 una flotta di navi napoletane, cui si erano unite anche galee da guerra maltesi e pontificie, sconfissero presso l’isola di Palmarola un manipolo di navi turche, e da allora l’arcipelago divenne sicuro.
Nel 1768 re Ferdinando IV di Borbone avviò una fase di miglioramento delle condizioni economiche degli isolani. Inviati tecnici per dirigere i lavori, questi durarono fino al 1793, svolti da alcune centinaia di forzati ergastolani, che poi nel 1795 furono rinchiusi nel nuovo carcere di Ponza. In questa seconda fase furono avviate e portate a compimento le opere pubbliche che ancor oggi caratterizzano l’arcipelago: sotto la guida di Antonio Winspeare, Ufficiale del Genio, e dell’ingegnere Francesco Carpi furono realizzati il Porto di Ponza con la caratteristica quinta curvilinea di abitazioni su due livelli stradali, il cimitero, la fortezza, il palazzo degli Uffici (oggi sede del Comune) la chiesa, il Forte Papa alle Forna, l’abitato di Ventotene e il suo piccolo porto, detto Pozzillo dato che le ripide quinte semicircolari (simili a quelle del porto di Ponza) innestate sull’antico Porto romano ben salvaguardato, richiamano le pareti di un pozzo. A prescindere dalle sensazioni indotte dall’uso, anche l’Ergastolo di Santo Stefano, dovuto agli stessi Carpi e Winspeare è opera di notevole rilievo: pianta a ferro di cavallo e Cappella/punto di osservazione centrale, ispirati ai principi del Panopticon del britannico Jeremy Bentham.
Nel 1813 Ponza fu occupata dagli inglesi guidati dall’ammiraglio Carlo Napier, che venne nominato conte dell’isola. Ma due anni dopo il Trattato di Vienna restituì l’isola ai Borboni. Nel 1857 Ponza fu raggiunta dalla spedizione del patriota Carlo Pisacane, che si era impadronito del Cagliari, un piroscafo che faceva la spola tra il capoluogo sardo e Genova. Giunto nel pomeriggio del 27 giugno a Ponza, Pisacane liberò i detenuti del carcere, con essi si recò a Palazzo Tagliamonte ove distrussero l’archivio dell’isola, e quindi ricostituì la sua spedizione contro il Regno delle Due Sicilie. L’impresa finì poi tragicamente, dopo lo sbarco di Sapri del 28 giugno.
Solo nel 1861, dopo la sconfitta ad opera di Giuseppe Garibaldi del Regno delle due Sicilie, Ponza fu annessa al Regno d’Italia.
Nel 1928 il regime fascista destinò Ponza a luogo di confino degli oppositori politici. Lo stesso Mussolini fu poi prigioniero nell’isola dal 27 luglio al 7 agosto 1943.
Nel 1935 venne avviato lo sfruttamento del giacimento di bentonite a Le Forna (miniera “Samip” -Società Azionaria Miniere Isole Pontine), che rimase attivo fino al 1975. La realizzazione della miniera di Ponza costò l’esproprio di qualche terreno, ma diede lavoro a circa 150 uomini, oltre al traffico marittimo per il trasporto del minerale in continente. Tuttavia l’isola dovette pagare la devastazione di una delle sue cale più belle e non pochi casi di silicosi tra gli operai addetti.
Nelle località di Frontone e di Capobianco vi furono anche delle miniere di perlite (una matrice grigiastra di ceneri e lapilli debolmente cementata ed inglobante dei proietti vulcanici nerastri e vetrosi), attualmente dismesse.
Dal neolitico ai greci

E’ stato accertato che la presenza dell’uomo sulle isole pontine risale al 5000 a.C.. Numerosi rinvenimenti preistorici nella zona di Sabaudia e San Felice Circeo (Latina) hanno anche dimostrato la provenienza isolana dell’ossidiana, roccia usata per fabbricare utensili ed armi, che è differente rispetto ad altre ossidiane presenti in italia.
La ragione per cui si spinsero fino all’arcipelago, crea nell’ambiente degli storici e degli archeologi qualche turbolenza teorica. Negli anni, le teorie più accreditate che giustificano la presenza di ossidiana dell’arcipelago fin nel nord italia; sono due. Una posiziona nel neolitico le attuali isole come semplici montagne e colline attaccate al Circeo causa la “regressione” delle acque del tirreno, mentre la seconda fatta da pochi anni a questa parte, afferma che Ponza già in antichità godesse di scambi commerciali anche se sporadici, con la terra ferma. Questi scambi venivano effettuati con imbarcazioni o zattere di piccolo cabotaggio. Comunque sia andata, alcuni di questi uomini si stanziarono nella zona che oggi ha le sembianze di un arcipelago, dando vita a piccolissime comunità di cui non vi è quasi più traccia. Purtroppo quì finisce l’epoca preistorica dell’isola, perchè anche se Ponza ha una storia di colonizzazione ed evolutiva dal punto di vista sociale che risale a tempi antichissimi, purtroppo la distruzione causata dalle colonizzazioni successive proprio per l’esiguità del territorio a disposizione, che costringeva i nuovi arrivati a costruire sulle macerie di chi veniva scacciato o semplicemete sostituito; ha lasciato pochissime traccie del suo passaggio. Al momento quindi, non sappiamo se l’isola è stato frutto di colonizzazioni preistoriche vere e proprie, ma la presenza dell’uomo è certa

Altre colonizzazioni più o meno durevoli interessarono l’isola.
I primi colonizzatori dell’epoca post-preistorica di cui si ha traccia sono gli Aurunci che vi si stanziarono intorno al 1500 a.C. ma le loro tracce sono scomparse così come per gli Etruschi. Non ci sono scritti o altro che consentono di sapere se gli Aurunci o gli Etruschi quando arrivarono sull’isola trovarono degli abitanti, o la strapparono a colonizzatori arrivati prima di loro.

La seconda colonizzazione avvenne per opera dei fenici (XII-XI sec a. C.). Ottimi navigatori e commercianti usarono l’isola come punto di un appoggio nel Tirreno, che con fonti di acqua, alberi da frutta e da legno oltre al mare pescoso consentiva alle navi di fare rifornimento e di sostare lontano dalle coste che potevano comunque far parte di piccoli regni più o meno favorevoli all’arrivo del commercio fenicio. Adatta per fare provviste di acqua e cibo per i lunghi viaggi di ritorno in terra fenicia, e per tenere al riparo le navi in caso di tempesta l’arcipelago diventò tappa fissa.

Una importante colonizzazione invece fu quella dei greci (VIII-VII sec. a. C.) che hanno lasciato delle tracce importanti come: delle necropoli nella zona dei guarini e del bagno vecchio ed un piccolo acquedotto poi ingrandito dai romani in zona le Forna e tutti ancora in buono stato. Quasi irriconoscibili invece, sono i resti di abitazioni. Visibile ancora è il porto del bagno vecchio. La durata della presenza greca sull’isola fu strettamente legata allo splendore della loro civiltà.

Con il declino della civiltà greca l’interessamento per l’arcipelago andò man mano scomparendo lasciando l’isola nelle mani dei Volsci. Con l’arrivo dei Volsci inizia una colonizzazione più militare che commerciale. L’isola venne definita dagli storici popolosa per l’epoca, ed anche i Volsci trovarono non poche difficoltà a tenere a bada una popolazione di arabi e greci stanziali sull’isola da decenni. Trasformatisi da contadini in esperti navigatori e guerrieri, i volsci avevano mire espansionistiche anche sull’arcipelago come punto avanzato di difesa nel tirreno centrale, basti pensare che per anni contesero la sovranità al piccolo ed allora nascente Impero Romano, ma al contrario di questi ultimi della loro secolare presenza sull’isola vi sono pochissime tracce. Infatti l’unica testimonianza storica sono delle mura ciclopiche erette dove attualmente si trova il cimitero e visibili dal mare.

Ponza sotto l’Impero Romano – Ponza in epoca Romana

Ponza e l’arcipelago passarono colonia romana nel 312 a. C. quando oramai il fiorente e potente impero romano si accordò con i volsci creando una colonia alleata. Libera ed indipendente da Roma, essendo popolata anche da magistrati e militari romani, l’isola godeva anche di una certa autonomia politica definita da un trattato che fissava diritti e doveri. I romani avevano intuito non solo l’importanza strategica ma anche quella economica dell’arcipelago. L’isola infatti nel 209 a. C. durante la seconda guerra punica fu una delle 18 colonie su 30 che fornì per sostenere l’impero nel conflitto : navi, uomini e ricchezze. Tutti questi privilegi non vanno confusi come Optimo jure (Cittadinanza romana), ma consentirono comunque di ottenere degli sgravi fiscali fino all’89 a.C. quando a seguito della guerra interna scatenata dai popoli italici contro Roma, divenuti oramai schiavi e non più alleati; anche Ponza acquisiva la cittadinanza romana, per renderla definitivamente un punto strtegico fondamentale per l’impero nel mar Tirreno centrale. Una volta acquisita la cittadinanza romana, Ponza si sviluppo enormemente diventando una fiorente e popolata cittadina che ospitava numerose e sfarzose ville patrizie. Nonostante la trasformazione in luogo di esilio per illustri personaggi politici, da parte dell’imperatore Augusto, l’isola diventò meta turistica anche per i patrizi romani e per l’imperatore stesso, che fece costruire un enorme villa con annesso tempio ( Le grotte di Pilato) nella zona di punta Madonna. Inoltre l’imperatore fece costruire diversi acquedotti (Il più grande arriva dalle forna fino a S. Maria), dighe e numerosi serbatoi idrici (Piscinae Limariae). Questi ultimi di notevoli dimensione assieme ad alcune piccole fonti di acqua sorgiva, servivano al fabbisogno degli abitanti dell’isola, al rifornimento di navi mercantili ed al rifornimento della intera flotta romana. Il fabbisogno di acqua fece appunto nascere la necessità di costruire dei serbatoi ed alcuni di essi erano di dimensioni notevoli. Ci fu un grande lavoro di ricerca e studio per scegliere la posizione dove costruire questi serbatoi. Molte di questi si trovano nella zona meridionale dell’isola sopratutto per la presenza del porto allora ubicato a S. Maria, ma probabilmente anche perché la conformazione geomorfologica particolarmente ricca di gole con canali più o meno naturali, adatti per la raccolta dell’acqua, avrebbe reso più facile l’insediamento urbano. Importante fu anche l’opera portuale che venne creata nella zona di S. Maria, l’imboccatura del porto era posizionata dove attualmente vi è la spiaggia, e raggiungeva l’interno fino alla depressione che è racchiusa tra le attuali via Pezza e via Staglio. Oggi l’aspetto della zona è completamente cambiato, infatti i primi monaci presenti sull’isola trovarono in quella zona un enorme bacino idrico chiuso verso il mare da una enorme battigia che probabilmente negli anni e avanzata fino a chiudere la baia. Oggi vi sono invece: case, strade, canneti, terreni coltivati ed inseriti nel paesaggio urbano: reperti archeologici. Sull’isola si sviluppò anche l’attività cantieristica, che godeva della facilità di reperire legname dai rigogliosi boschi di pino e querce presenti nell’arcipelago, purtroppo questo portò alla prima grande deforestazione. Si sviluppò anche un vero e proprio traffico marittimo infatti sull’isola venivano comprate e vendute ogni genere di mercanzie, ed inoltre la popolazione crebbe incredibilmente fino ad arrivare a quasi 20.000 abitanti. Con il declino dell’impero romano, anche l’interesse verso le isole iniziò ad affievolirsi e l’arcipelago iniziò a vivere di vita propria. Gli ultimi stralci di un epoca oramai sorpassata, si manifestavano nel possesso di Ventotene, mantenuto per pochi anni ancora dall’imperatore di oriente; come base logistica avanzata e porto verso l’occidente.

San Silverio Papa e Martire a Ponza

LA VITA PRIMA DEL PONTIFICATO

Nell’anno 480 nel Lazio, nella città di Frosinone; nasceva da Ormisda e Caria di Capua: Silverio. La famiglia di Papa Silverio con molta probabilità, viveva in una discreta agiatezza e sopratutto il padre Ormisda, era un uomo di cultura. Purtroppo, Ormisda perse la moglie quando Silverio era in giovanissima età. Deluso probabilmente dalle amarezza che la vita gli aveva dato, Ormisda andò a vivere a Roma aggregandosi al clero della chiesa romana, portando con se Silverio. A Roma, la vita di Silverio ebbe come unico punto di riferimento il padre, che oramai avvicinatosi molto alla vita monastica influenzò anche il piccolo Silverio. Nel 514 quando Silverio aveva 34 anni, il padre Ormisda era diacono di Papa Simmaco e persona stimata tanto da essere citato in alcune lettere dei concili vaticani. Alla morte di Papa Simmaco, Ormisda venne eletto papa. Favorito dall’essere figlio di un Papa, Silverio oltre all’educazione cristiana, ebbe la possibilità di formarisi anche nelle lettere umane e divine. L’unico documento che ci resta delle sue capacità letterarie, scritto oltretutto in giovane età; è l’iscrizione funebre che Silverio compose per la tomba del padre. La lettera, di altissimo valore storico, fu rintracciata diversi anni fa da dall’archeologo Giovanbattista De Rossi nei poemi dell’Alcuino e narra, naturalmente in latino, le gesta del padre Sant’Ormisda spentosi il 6 agosto 523 quando Silverio aveva 43 anni.

 

LETTERA DI SAN SILVERIO AL PADRE

Lettera in latino

Quanvis digna tuis non sint, pater, ista sepulcris Nec titulus egeat clarificata fides,Sume tamen laudes, quas Petri captus amore,Extremo veniens hospens ab orbe legat. Sanasti patriae laceratum shismate corpus,Restituens propriins membra revulsa locis. Imperio devicta pio tibi Graecia cessit, Amissam laetatur multos captiva per annos,Pontifices precibus promeruisse tuis. Haec ego Silverius, quamvis mihi dura, notavi, Ut possent tumulis fixa manere diu.

Traduzione in italiano

Sebbene, o padre, queste parole non siano eccelse,quanto il tuo sepolcro, e la fede glorificata non abbia bisogno di iscrizioni, accetta tuttavia le lodi che il pellegrino, attratto qui dall’amore di Pietro, potrà leggere, giungendovi dagli estremi confini della terra. Hai tu risanato il corpo della patria, gia lacerato dai dissidi, restituendo nelle proprie sedi i membri che erano stati avulsi. Al tuo paterno comando s’è arresa la Grecia, giubilante per aver ritrovato la sua fede perduta. L’Africa, schiava da molti anni, s’allieta d’aver meritato il ritorno dei suoi vescovi per le tue preghiere. Io stesso, Silverio, sebbene a malincuore, ho notato questi particolari, affinché sulla tua tomba restino scolpiti per sempre.

Dalla lettera si può intuire che Papa Ormisda, il cui papato durò nove anni, fu un papa sapiente ed attivo per l’epoca in cui viveva, ed ottenne riconoscimeni sia religiosi che diplomatici. Fu quasi una conseguenza naturale, che il figlio di un Papa così santo e venerato, fosse anch’egli amato e stimato dall’ambiente. Silverio però non aveva il desiderio di far carriera a livello ecclesiastico, infatti dopo la morte del padre, occupava solo un posto come subdiacono della chiesa di Roma. La figura del padre influì sopratutto nella formazione spirituale di Silverio, infatti quest’ultimo era mosso nell’opera religiosa da una grande umiltà e dalle regole che la scuola apostolica gli aveva inculcato.

IL PONTIFICATO DI SAN SILVERIO

L’8 Giugno del 536 Silverio venne eletto Papa ed il 20 giugno dello stesso anno fu proclamato vescovo di Roma. Il pontificato di Papa Silverio, purtroppo fu breve, tormentato e impoverito da calunnie. L’ascesa del domio Bizantino in europa, interessò in prima persona Papa Silverio, che per difendere il potere papale su Roma fu costretto, per il bene comune, ad accettare il giuramento di fedeltà ed a mercanteggiare un accordo favorevole al popolo dei Goti, comunque non bellicoso nei confronti del clero romano. L’accordo prevedeva che i romani qual’ora l’esercito bizantino fosse arrivato in italia, si sarebbero opposti oll’esercito bizantino in attesa di un esercito Gotico ben più potente che doveva discendere l’Italia dal nord. Il fine di Vitige imperatore dei Goti, era solo di rallentare e fiaccare l’ascesa dell’esercito bizantino, facendogli affrontare battaglie ed assedi lungo il percorso, qual’ora l’esercito bizantino fose arrivato da sud. L’accordo venne valutato da Papa Silverio per quello che rappresentava: un estorsione. Poco dopo l’accordo stretto con Vitige venne considerato nullo. Anche perchè il re Gotico, sapeva che i cittadini di Roma si sarebbero immolati per difendere l’autorità pontificia, se quest’ultima lo avesse chiesto. Ma probabilmente, non considerarò le capacità diplomatiche di Papa Silverio ed i suoi seguaci, e l’influenza che la religione poteva avere sui generali e sull’imperatore bizantino. Quando Belisario entrò a Roma per l’attuale porta S. Giovanni, venne accolto da Papa Silverio e da alcuni nobili con tutti gli onori. Belisario rimase affascinato dalla persona di Papa Silverio, uomo di carità ma di ferma ideologia apostolica e di cultura, tanto che dal colloquio, scaturì un rapporto di stima da parte del generale bizantino nei confronti del pontefice. La volontà da parte del pontefice di non riconoscere altro potere se non quello di Dio, destò probabilmente nel generale bizantino non poche preoccupazioni, sopratutto dal punto di vista militare per i danni che poteva produrre un lungo assedio di Roma, perchè l’autorità che il Papa rappresentava poteva essere utilizzata per aizzare il popolo di Roma contro l’esercito bizantino chiedendo la resistenza ad oltranza. E l’arrivo dell’esercito gotico avrebbe portato l’esercito bizantino oltre che a dover affrontare un lungo assedio anche a combattere su un secondo fronte con l’esercito dei Goti. Dal colloquio che Belisario fece con Papa Silverio, emerse l’amarezza di quest’ultimo per gli avvenimenti sanguinosi che seguirono alla presa di Napoli,e la susseguente richiesta di essere più magnanimo possibile con gli sconfitti. Belisario allora, ordinò l’immediata ricostruzione di Napoli e la restaurazione delle chiese distrutte, rassicurando i napoletani fuggiti dalla città che al loro rientro non sarebbe susseguita nessuna rappresaglia punitiva. Il pontificato di Papa Silverio proseguì tra mille difficoltà, aggravatesi sopratutto a causa dall’esercito dei Goti riorganizzatosi ed in assedio su Roma. Nonostante ciò si riuscì alla nomina di: 14 sacerdoti, 19 vescovi e 5 diaconi. Purtroppo, ben presto Papa Silverio attirò su di se le antipatie delle frange politiche più vicine alla imperatrice di Bisanzio: Teodora. Il Pontefice invitato a recarsi Bisanzio per risistemare le problematiche ecclesiastiche lasciate in sospeso dal suo predecessore Papa Agapito e che affliggevano il paese. Questa richiesta era mossa più da un fattore politico che religioso, infatti il patriarca Menna, reggente della chiesa di Bisanzio, era poco gradito sia all’imperatrice che a politici a lei vicini, e voleva rimettere al posto del patriarca un’altro prelato già cacciato precedentemente per accuse di eresia. Papa Silverio rispose all’imperatrice con una lettera dove manifestava la sua più profonda indignazione, per una richiesta cosi assurda, come era il rinsediamento di un eretico sul posto riservato ai discepoli di Dio. Con questa lettera Papa Silverio firmò la sua condanna a morte. Secondo gli scritti di Procopio, storico del generale Belisario, la regina Teodora scrisse subito una lettera al generale Belisario ed alla moglie, nella quale manifestava la volontà di deporre Papa Silverio, con qualsiasi mezzo, anche un semplice pretesto. Il potere conferito dal titolo di Patricius, permetteva al generale non solo di comandare militari e civili, ma gli conferiva anche il potere giudiziario e in mancanza dell’imperatore ne poteva prendeva le veci. Belisario, uomo fiero e di principio, non era molto propenso al tradimento nei confronti di Papa Silverio, al contrario della moglie Antonina bramosa di potere, che ben presto iniziò con la sua corte a muoversi contro il Pontefice. Furono diffuse una serie di voci infamanti, a cui si fece seguire una lettera falsa di Papa Silverio ai Goti. In questa lettera falsa, veniva espressa la volontà del pontefice di tradire i romani favorendo l’entrata di Vitige in Roma di notte, consentendo l’accesso per la “porta Asinaria” nei pressi del suo palazzo in Laterano. La lettera fu portata nelle mani di Belisario, che si limitò però solo a cambiare residenza, visto che era ospite nel palazzo Papale in Laterano ed anche perchè non era possibile verificare l’autenticità della lettera stessa. Ma il problema, fu solo rimandato.

LE ACCUSE ED IL PROCESSO

Anche se Belisario difficilmente avrebbe creduto alle accuse mosse contro Papa Silverio, dovette però, comunque procedere alla messa sotto accusa del Pontefice, spinto sopratutto dalle continue pressioni esercitate dall’imperatrice Teodora e da sua moglie Antonina. Da alcuni scritti, risulta che quando Papa Silverio fu chiamato a colloquio dal generale, non venne subito accusato e messo di fronte alle prove infamanti che documentavano il suo tradimento. Il generale tentò di mediare, infatti chiese prima ed inutilmente, se il papa fosse stato disposto ad esaudire alle richieste gia ventilate in passato dall’imperatrice Teodora. Il tentativo di mediazione fu inutile, poiché la risposta del Pontefice fu la stessa, nessuno poteva anteporsi al volere di Dio. L’unica difesa anteposta dal Papa alle accuse di Belisario, fu la protesta ferma e decisa, nonché l’impegno a trasferirsi lui ed i suoi seguaci presso la Chiesa di S. Sabina Sull’Aventino, donde destare qualsiasi tipo di preoccupazione al generale Bizantino, constatando; che quest’ultima era ben lontana da qualsiasi punto di accesso alla città. Tutto ciò non bastò a fermare il processo oramai in corso nei confronti del Pontefice. Si susseguirono le udienze, con l’assicurazione che mai sarebbe stato fatto del male al Pontefice, ma erano soltanto un paravento atto a dare un aspetto legale alla vicenda. In quel periodo si processavano sommariamente anche nobili e senatori, che avevano solo osato dare opinioni avverse al potere Bizantino. Il giuramento che Belisario aveva con il Papa, purtroppo non bastò ad assicurargli l’incolumità. Anche nella seconda udienza gli vennero lanciate le stesse accuse, ma si cercò comunque la mediazione, che sarebbe stata più soddisfacente sotto il profilo strettamente legale. Il parere fermo del Pontefice su come condurre la vicenda, era oramai chiaro anche ad i suoi accusatori. Probabilmente proprio dopo questo secondo incontro, Belisario meditò, anche per non perdere di potere e credibilità con i suoi seguaci, una soluzione drastica. Chiamato alla terza udienza il Pontefice fu interrogato ancora una volta, ma purtroppo l’epilogo fu diverso. Papa Silverio non usci più dal palazzo di Belisario come un uomo libero. Venne deposto con l’accusa di tradimento, condannato all’esilio e pochi giorni dopo sostituito con il cosidetto “Antipapa” Virgilio, imposto all’attenzione pubblica, dopo aver fallito per ben 3 volte il tentativo di farsi eleggere Papa. Virgilio fu imposto, perchè quello che aveva fatto Belisario era impensabile. Il Papa poteva essere deposto dal suo potere spirituale solo da una conclave apostolica, con motivi molto gravi: manifesta follia, eresia ecc. Quindi la soluzione era mettere al posto di Papa Silverio un prelato con poteri forti come Virgilio, in modo da giustificare la proclamazione come papa da Belisario e dalla sua corte. Mentre da altri prelati visto che Papa Silverio era ancora in vita, venne considerato diplomaticamente: vicario del Papa, soddisfacendo le esigenze di tutti.

L’ESILIO E L’ASSASSINIO

L’esilio di Papa Silverio, inizia con l’imbarco su una nave alla foce del Tevere più o meno nei pressi dell’attuale Ostia. Proseguirà costeggiando tutto il Tirreno, il mare di Sicilia e lo Ionio, per fermarsi a Pàtara in Licia città natale di San Nicola di Bari. Li venne accolto dal vescovo della città, che si fece carico non senza pericoli, di portare la parola del deposto Pontefice presso la corte Bizantina. Purtroppo il colloquio con Giustiniano fu infruttuoso, infatti dai documenti arrivati ai giorni nostri, l’imperatore Bizantino negò di sapere della vicenda e di non avere nessun coinvolgimento. Le continue insistenze del vescovo, spinsero Giustiniano ad approfondire la vicenda. Dagli elementi acquisiti, probabilmente l’imperatore non riuscì ad avere un quadro ben chiaro, perché con un decreto da lui firmato impose al generale Belisario di rivedere il processo. Inoltre nel decreto veniva specificato che: le lettere incriminanti dovevano essere riesaminate e se risultavano false, il Pontefice doveva tornare immediatamente al suo posto. Al contrario, se fossero risultate vere, Papa Silverio doveva essere destituito e nominato vescovo di una curia a sua scelta, che naturalmente non doveva essere nelle prossimità Roma. Dopo poco più di un mese in oriente, il Pontefice venne imbarcato su una nave che da Pàtara l’avrebbe dovuto riportare a Roma, almeno questi erano gli ordini. La nave in sosta a Napoli, venne raggiunta da una delegazione inviata da Papa Virgilio con il permesso del generale Belisario. La delegazione, aveva il compito di prendere in custodia cautelare Papa Silverio e di portarlo all’isola di Ponza, dove sarebbe rimasto, in attesa della riesamina del processo. San Silverio giunse a Ponza nei primi giorni di giugno del 537 e sbarcato senza che nessuno sapesse chi fosse quest’uomo, trovo ospitalità presso il convento benedettino dedicato a S. Maria. E’ da considerare che in quel periodo, San Silverio doveva avere all’incirca 60 anni, che non sono pochi per l’epoca. Già con molte probabilità, sofferente di diverse patologie normali per l’epoca, il clima umido e la vita spartana che si faceva sull’isola, non favorì il suo soggiorno. Il 21 novembre del 537 dopo pochi mesi sull’isola Papa Silverio si spense. La morte del Pontefice, come rilevato in alcuni scritti (Storia Arcana) di Procopio (Storico di guerra del generale Belisario), fu violenta e non dovuta alle condizioni ambientali. Papa Silverio fu ucciso, poiché anche se le sue condizioni fisiche con un prolungarsi del soggiorno isolano, lo avrebbero portato ben presto alla morte, era meglio affrettare i tempi. Il motivo della freetta probabilmente fu che alcuni vescovi a lui fedeli, non solo stavano preparando la difesa nella revisione del processo, ma si opponevano all’autorità di Virgilio con un forte ostruzionismo. Ed avevano manifestato più volte anche per iscritto, la volontà una volta ritornato Papa Silverio; che quest’ultimo emanasse un decreto di scomunica nei confronti dell’antipapa Virgilio. Questo provvedimento, avrebbe potuto avere conseguenze catastrofiche. La preoccupazione di uno scisma nella chiesa e sopratutto, la paura di insurrezioni interne alle mura di Roma; portò al complotto clerico-bizantino che si concluse con l’assassinio del Pontefice ad opera (Sempre secondo Procopio) di un certo Eugenio che fu l’artefice materiale del delitto. Secondo precisi riferimenti storici, le spoglie di San Silverio vennero tumulate nella chiesa benedettina di S. Maria, posto solitario per l’epoca ed a molti sconosciuto. Tutto ciò, per evitare, che venissero portate in vaticano ed esaminate, ma sopratutto che l’ubicazione della sua tomba fosse resa pubblica e quindi luogo di pellegrinaggi ed eventuale simbolo di scisma della Chiesa e sopratutto della città di Roma.

CONCLUSIONI E DOMANDE

A prescindere di come si siano svolti i fatti, e la veridicità delle fonti bibliografiche trattate ed i nomi esposti, che potrebbero essere fonte di discussione infinita; dal quadro della situazione si può evincere, che l’allora chiesa di Roma, non era nient’altro che una succursale della chiesa di Bisanzio. La chiesa di Bisanzio totalmente assoggettata al potere temporale, era più che altro un simbolo della potenza dell’impero d’oriente e come tale veniva trattato ed usato. Che l’assassinio di Papa Silverio sia stato più o meno voluto è lampante. E’ impensabile infatti, solo l’idea di mandare un uomo ammalato su un isola come era allora Ponza, dove erano difficili le condizioni di vita per chi ci viveva in gioventù, figurarsi poi per un uomo già allo stremo delle forze. E’ vero che fu assassinato, ma la morte sarebbe comunque giunta per gli stenti e per la durezza della vita isolana sono solo stati affrettati i tempi a sostegno dell’ipotesi dell’omicidio di stato. Che poi sia stata l’imperatrice Teodora a tramare il tutto, viene riportato da antichi manoscritti, la cui veridicità pero, viene confermata solo in grandi linee dal susseguirsi degli eventi storici ed è impossibile quindi definire la veridicità dei particolari, che anche se scritti non e detto che riportino la verità.

DOVE E’ SEPOLTO SAN SILVERIO

L’ubicazione del sepolcro di S. Silverio è da anni oggetto di studio, poiché la documentazione storica esistente, é poca e frammentaria. Di sicuro, si sa che subito dopo la morte, le spoglie del Santo furono affidate ai Benedettini che le tumularono nel monastero dedicato a S. Maria sull’isola. Il ragionevole dubbio che le spoglie non siano mai state portate in vaticano come per tutti gli altri papi, è avallato dal fatto che il nome di Papa Silverio non figura nell’elenco dei papi sepolti in S. Pietro. Non vi sono nemmeno documenti che possano confermare l’avvenuta traslazione, dal sepolcro originale a quello eventuale in S. Pietro. Secondo alcuni autori dell’Acta Sanctorum (Opera ciclopica che elenca i santi della chiesa cattolica ), la lapide del santo almeno fino ai primi del 1600, era ben visibile. Nello scritto, si afferma infatti, che sulla lapide del santo presso, cui si recavano ammalati ed infermi, si leggeva quanto segue:  “Romae supremus apex Silverium aedis ossa sub hoc retinet mortuus extraneo” – Sommo Pontefice della Romana sede, morto, tiene le sue ossa sotto questo marmo straniero.

Queste affermazione e questa frase, nonostante la fonte fosse attendibile, non hanno mai avuto un riscontro reale, dovuta al fatto che nessuno avesse saputo descrivere dove fosse ubicata la tomba. Se fosse così si avvalorerebbe anche l’ipotesi di Daniel Papebroch, anch’egli facente parte degli autori dell’Acta Sanctorum . Infatti il Papebroch afferma che le reliquie del santo non sono mai state traslate dall’isola. Se queste ipotesi dovessero risultare esatte, le spoglie del Santo potrebbero essere andate definitivamente perse. Lo scempio, commesso prima dai pirati siriani nell’813, dai coloni poi ed in ultimi analisi dalla moderna aggressione edilizia, potrebbero aver causato un danno irreparabile. Le spoglie del Santo, potrebbero essere state prese dai pirati e quindi bruciate o gettate in mare, poiché da alcuni documenti storici, risulta che le chiese dell’isola vennero rase al suolo. Potrebbero però, ipotesi molto probabile, ed ancor più agghiacciante per l’epoca in cui sono avvenuti i fatti; essere state sommerse dal cemento o gettate chissà dove, come resti di lavori di scavo, dai più o meno moderni coloni dell’isola, non troppo attenti ai beni archeologici.

Altra ipotesi interessante è quella fornita da alcuni studiosi del Santo. Molti affermano che le spoglie di San Silverio potrebbero essere state portate via anche dai monaci in fuga. Se l’ipotesi dovesse risultare fondata, le spoglie del santo si potrebbero trovare in uno dei tanti monasteri fondati dai monaci fugiaschi, tumulati in una tomba sotto nome generico per proteggerli da eventuali profanazioni. Il problema è, dove cercare? E se anche si riuscissero a rintracciare i movimenti di tutti i monaci, il problema rimane, perchè molti di essi si stanziarono lungo la costa, e furono soggetti ancora ad attacchi e depredazioni da parte dei pirati, e nulla avrebbe impedito di fare scempio delle spoglie del Santo.

In una ricerca storica risultò che nell’anno 817, Papa Pasquale I° ristrutturò quasi nella totalità la Basilica di S. Prassede in Roma, dove vi collocò le spoglie di numerosi martiri. Da ulteriori e più approfonditi studi, si scoprì che quelle tombe vennero usate per accogliere i resti di quei martiri le cui tombe erano state saccheggiate o che comunque erano in condizioni di completo abbandono. Studiando gli scritti sulle lapidi, si scoprì che i nomi di alcuni martiri, qui seppelliti, provenivano dai cimitero Ponziani. Tra di essi fu trovato il nome di “Candidae”, e cioè l’attuale Santa candida patrona di Ventotene. Questo ritrovamento provava che Papa Pasquale estese l’opera di traslazione dei santi anche nelle isole Ponziane. Purtroppo la ricerca a San Prassede non portò a nient’altro, anche perché con molte probabilità S. Silverio era stato tumulato tra i santi che in vita rivestivano importanti cariche ecclesiastiche. La ricerca continuò, perché anche dei resti della patrona di Ventotene non si sapeva più nulla. Purtroppo le uniche notizie incoraggianti, si limitano al fatto che nella stessa basilica vi sono sepolte le spoglie di ben 12 papi. Su queste lapidi però non vi è nessun nome, e questo fa pensare che fossero riservate a coloro che ancora non avevano una posizione ben chiara nella storia apostolica. San Silverio, negli antichi archivi custoditi in S. Maria Maggiore, viene considerato addirittura come Antipapa. Solo negli anni precedenti all’istituzione della festa e cioè più di 10 secoli dopo la sua morte, ne fu chiarita la posizione definitivamente, quindi una sua sepoltura in quelle tombe senza nome non è da escludere.

Solo nel 2006 dopo una ricerca commissionata dallo scrittore ponzese Ernesto Prudente ad un amico che collaborava con lui, nel reperire materiale per gli stessi via internet; sono uscite novità tutte da verificare. Proprio per la stesura del libro “Silverio, un nome per il mondo” sono uscite in una teca custodita in spagna in una piccola località chiamata Villavaido delle presunte reliquie ma tutto rimane ancora da verificare, e dopo la morte dello scrittore probabilmente nessuno lo verificherà mai.

COSA HANNO IN COMUNE SAN SILVERIO E L’ISOLA DI PALMAROLA?

Non se ne sa bene il motivo, ma per anni nell’immaginario collettivo, l’esilio di San Silverio era stato identificato nell’isola di Palmarola. Il dubbio è stato creato negli anni, sopratutto dall’ignoranza di molti che consideravano come isole palmarie, Palmarola e gli scogli limitrofi e dalla presenza delle rovine di un piccolo monastero, che oramai sono visibili solo se si sa dove ceecarle perchè completamente rase al suolo. Nei documenti storici arrivati ai nostri giorni, si parla, per l’esilio di San Silverio, della maggiore delle “isole palmarie ” e non di Palmarola. Le isole palmarie erano rappresentate da tutto l’arcipelago e non dalla sola isola di Palmarola, e la maggiore delle isole è Ponza. Inoltre il convento dedicato a Santa Maria dove venne ospitato il santo, si trovava a Ponza, e per esattezza nella frazione che oggi si chiama appunto Santa Maria dove era ubicato l’omonimo convento. A tutt’oggi, si può dire con sicurezza che il santo non mise mai piede sull’isola di Palmarola, ed il suo esilio ponziano si limitò alla maggiore delle isole, cioè Ponza.

Il monachesimo

Il monachesimo nell’isola di Ponza non si posiziona in un periodo storico ben preciso ma abbraccia un arco di storia che è pressappoco di 800 anni. L’interesse dei monaci verso l’arcipelago ed in particolare per l’isola di Ponza iniziò nel 503, quando sull’isola si svolse un concilio composto di 119 vescovi << per giudicare fuori influenza il pontefice Simmaco contro l’accusa di eresia >>, come cita in un suo libro lo storico ponzese Tricoli, che ricorda anche che il pontefice fu assolto. Triste pagina per le isole è rappresentata con l’esilio alcuni anni prima e morte di Papa Silverio nel 537 , che poi nominato santo e martire divenne anche patrono dell’isola. Nel 538 sull’isola di Ponza, venne fondata l’abbazia benedettina di S. Maria. La creazione di questa abbazia fu spunto per far divenire l’isola meta di rifugiati. Fin dal 572, causa la discesa dei longobardi che si erano spinti fino alle soglie della campania, nelle isole trovarono rifugio tantissime persone.

A cercare rifugio e quiete, spinti da forti motivazioni di ordine sentimentale furono sopratutto i religiosi, infatti nell’isola di Ponza c’erano precisi riferimenti di fede. Negli anni del dominio romano infatti, l’isola non ospitò soltanto patrizi romani libertini e dissoluti, ma anche i nemici dell’impero che venivano esiliati e resi in schiavitù. Una gran parte di questi erano cristiani che preferivano l’esilio piuttosto che riconoscere il potere di Roma. Con il passare degli anni il nome dei futuri Santi e Martiri morti sull’ isola o che vi hanno soggiornato, è andato man mano crescendo.

Alcuni di questi sono: San Silverio, Santa Domitilla, Sant’Anastasio, San Montano ed i santi Nereo ed Achilleo, mentre i martiri furono Eutico, Vittorino, Marono, Sulpizio e Serviliano, e le vergini: Irene, Agape, Chiona ed Eufrosina.

Con la presenza di questi riferimenti religiosi, non fu difficile per i monaci trovare oltre alla sicurezza fisica anche la pace dell’anima, e la cristianità sull’isola diventò il fulcro della vita isolana stessa. La presenza di eremiti e monaci favori la nascita di diverse abbazie, monasteri e chiese, di cui oggi purtroppo non vi è quasi più traccia. Con queste premesse l’isola diventò ben presto un fiorente centro del monachesimo, ed a farsene promotori furono i Benedettini. Gia costruttori del primo convento di Santa Maria. Questi ultimi si dedicarono alla costruzione di quasi tutti i conventi che c’erano sull’isola e sulle isolette vicine(Zannone, Ventotene, Palmarola, S. Stefano) . Proprio su una di queste isole: Zannone, sono ammirabili ancora ben conservati, i resti del convento benedettino che poi nel 1223 per opera di Onofrio III, passò sotto la cura dei ai Cistercensi. Onofrio III affidò la vigilanza di tutti i conventi insulari ai religiosi dell’abbazia di Fossanova, che era stata eretta dai monaci Citeaux (Cistercium – da cui Cistercensi). L’avvento dei Cistercensi coincise con il progressivo abbandono delle isole, poiché le scorrerie dei pirati, oramai incontrastati dominatori del mediterraneo, divenivano sempre più frequenti e sanguinarie tanto da far prevalere le ragioni di sopravvivenza su quelle della spiritualità . I segni dell’esodo migratorio ci sono ancora oggi sul continente. I monaci fugiaschi costruirono due conventi : uno è il monastero di Santo Spirito di Zennone costruito a Gaeta nel 1295 e dedicato al convento abbandonato a zannone , ed un altro è la chiesa di Santa Maria di Ponza e S. Anastasio, fondato a Formia per ricordare l’omonimo monastero di Ponza. Con questi due trasferimenti la presenza monastica ufficialmente organizzata finì.

La chiesa, quasi sempre accostava al dominio spirituale quello temporale, ed essendo inequivocabilmente interessata alle isole pontine, dopo quasi 200 anni e con esattezza il 23 giugno 1479 per opera di papa Sisto IV decise di offrire a coloro che si stabilivano sull’isola condizioni di favore.

Papa Sisto IV, oltre a dare in enfiteusi l’isola ad alcuni cavalieri napoletani, firmò un editto che accordava agli isolani : << Di poter con ogni sicurezza andare e venire dai stati pontifici, da essere trattate come persone d’abbene, commerciarvi, immettervi ed estrarne qualunque genere per uso dell’isola con l’esenzione da ogni gabella municipale, o dazio doganale, fulminando la scomunica a tutti coloro che cercavano frastornare l’adempimento>>. Come si può intuire i numerosi vantaggi offerti agli isolani e la severa punizione per chi violava gli accordi, manifestava la ferma volontà del pontefice a mantenere una popolazione stabile sull’isola. Quest’editto fu un avvenimento veramente eccezionale per l’epoca in cui fu emanato, e per quasi 350 anni fu un esempio di generosità e liberalità, purtroppo l’esperimento fu fallimentare, poiché fino ai primi anni del 1800; i monaci e gli abitanti spesso venivano catturati dai pirati e venduti come schiavi, e l’isola non riusciva a popolarsi.

i Pirati a Ponza

Con la fine dell’impero romano l’isola cadde in un oblio dorato per quasi 300 anni. Quando i saraceni comparirono nel mediterraneo verso i primi del IX secolo l’Italia versava in condizioni a dir poco penose. Le discese dei Longobardi, Goti, Visigoti, vandali ed aggressori di ogni genere avevano portato alla quasi totale distruzione del litorale del basso Lazio. Solo Gaeta e Terracina resistevano ancora agli attacchi ed alla miseria, Formia fu completamente distrutta e scomparve anche dalle cartine solo nel 1861 riacquistò la sua identità nominale e di città. Le isole invece godevano di una certa libertà e spensieratezza dovuta al fatto che i popoli aggressori non erano dotati di flotte navali, il mare pescoso, la ricchezza di alberi da frutta e colture ortofrutticole, trasformarono l’isola in una piccola oasi.

Purtroppo ben presto le piccole ma rapide ed agguerritissime flotte provenienti dal medio oriente iniziarono anche a solcare le acque del tirreno centrale. La bandiera con la mezza luna ben presto diventò motivo di terrore per i ponzesi. Infatti alcuni nuclei autonomi dotati di spirito di avventura iniziarono ben presto a saccheggiare il litorale tirrenico arrivando sin sulle coste dell’isola.

Le isole pontine subirono la prima aggressione nell’ 813. Una quarantina di navi saracene si spinsero fino a Ponza , assaltarono il centro abitato ed il monastero di Santa Maria, facendo prigionieri tutti i monaci e molti abitanti dell’isola. Non contenti depredarono e massacrano tantissime persone, l’attacco fu cosi spietato che ancora oggi non si ricordano massacri altrettanto sanguinosi, aiutati della inoffensività delle autorità che governavano l’isola si ritirarono indisturbati.

Questo primo attacco a Ponza fu il preludio di un periodo buio che culmino con l’insediamento nell’877 degli arabi in Sicilia. Infatti le scorrerie dei pirati si fecero cosi frequenti e spregiudicate che oltre ai continui attacchi alle isole iniziarono anche ad attaccare tutti i paesi della riviera tirrenica. Con la loro tattica di guerriglia estremamente audace si spinsero fino a Roma e nell’846 assaltarono le basiliche di San Pietro e di San Paolo.

L’arcipelago pontino subì un vero e proprio esilio, poiché la presenza dei pirati saraceni stanziatisi oramai alle foci del Garigliano e nei presso della cittadina di Scauri sul monte argento, rendevano Ponza una base avanzata perfetta per condurre scorrerie sui paesi costieri che andavano da Formia ad Anzio. Nonostante una sconfitta inferta alla flotta araba dalle navi papaline di Giovanni VIII nell’877, non si ottenero i frutti sperati, ad i pirati continuarono ad usufruire dell’isola come punto di approdo e rifornimento ancora per anni. Solo nel 915 una lega guidata da Papa Giovanni X che comprendeva : i duchi di Benevento, Salerno, Gaeta, Capua, Camerino, Spoleto, e Napoli si mosse contro i Saraceni stanziatisi presso le foci del Garigliano. Dopo una sanguinosa guerra di tre mesi gli invasori vennero scacciati. Le isole godettero così come tutto il Lazio di una ritrovata tranquillità sotto l’influsso di un nuovo monachesimo, e al pace durò per quasi 500 anni .

Nei primi anni del 1400 i pirati ritornarono a farsi vedere nelle acque del tirreno centrale, tornando a spadroneggiare sulle coste tirreniche e nel mediterraneo. Per garantirne la protezione nel 1477 le isole vennero concesse in enfiteusi a tre cavalieri napoletani: Alberico Cafara, Antonio Petrucci e Aniello Arcamone ; e successivamente ai Farnese. purtroppo l’iniziativa non ebbe gli effetti sperati sotto il profilo protezionistico, infatti tra il 1534 ed il 1552 nel tirreno centrale ci fu un vero e proprio dominio dei pirati liberi ed indisturbati nelle loro scorrerie e massacri. L’isola di Ponza ritornò ad essere meta fissa dei pirati ed in particolare di due: Khayr-ad-Dìn detto Barbarossa e Dragut, che usavano l’isola come punto di partenza per i loro attacchi nel tirreno centrale e per rifornire le navi di viveri ed acqua.

Infatti per rispondere all’attacco subìto nel 1550 dai cristiani, che miravano a liberare il mar mediterraneo dai pirati saraceni; Dragut fece scalo a Ponza il 15 Luglio del 1552, sicuro di trovare un isola completamente abbandonata, e vi rimase fino al 21 Luglio 1552 , per salpare poi verso le coste laziali ed assaltare e depredare Minturno e Castellonorato. Già visitatore dell’isola Dragut sapeva che ivi poteva trovare oltre a legni robusti per riparare le navi , la selvaggina dei boschi ed i prodotti dei campi che anche se abbandonati erano pur sempre rigogliosi ed offrivano di che rifornire le stive. Ponza subì un altro attacco da parte dei pirati nel 1655. Questi ultimi fecero saltare, con vari barili di polvere, la torre definita “La lampana” che era stata alzata sul porto con funzione sia difensiva che di faro.

Nella storia ponzese non vi furono solo disfatte, aggressioni e sconfitte, infatti nel 1757 dodici galere appartenenti a Napoli, Roma, Malta e Ponza, presero di sorpresa alcune navi pirata che erano alla fonda nelle acque di Palmarola, e le colarono a picco con un potente fuoco incrociato. Questa vittoria, e tanto meno l’autorizzazione al libero porto d’armi concesso ai ponzesi, non frenò comunque l’intraprendenza dei pirati, infatti gli attacchi più o meno cruenti proseguirono, e nel 1805 otto cittadini ponzesi furono catturati e condotti ad Algeri come schiavi.

Questo nuovo attacco impose radicali cambiamenti nella difesa dell’isola. Oltre ai vantaggi già concessi, ai ponzesi venne concessa “La patente di corsa” ovvero di corsari. La differenza tra un pirata ed un corsaro, é che quest’ultimo è autorizzato dal re ad attaccare le navi nemiche all’autorità del re stesso. Molte navi adibite al commercio si trasformarono in navi corsare , e di conseguenza nacquero anche dei corsari ponzesi. Molti di questi corsari erano delle brave persone spinte su questa linea, più dalla necessità e dalla voglia di far terminare il terrore a Ponza, che da un effettiva volontà di diventare corsari e per questo non erano solo temuti, ma annche rispettati. Col passare del tempo gli attacchi dei pirati si fecero sempre meno frequenti e le lotta dei corsari ponzesi si direzionò verso gli avversari dei signorotti di turno che dominavano l’isola.

Dal 1500 dai Farnese ai Borboni

Nel 1524 Alberto Cafara ultimo dei cavalieri napoletani che aveva l’isola in enfiteusi rinunciò al suo incarico, e di ciò ne approfittò la casata Farnese. Nel 1542 Papa Paolo III (Famiglia Farnese) nominò titolare dell’abbazia di Santa Maria di Ponza suo nipote, il Cardinale Alessandro (Farnese). Il Cardinale aveva il potere essendo il titolare, di concedere l’arcipelago in enfiteusi o in feudo a terzi. La concessione dell’arcipelago come feudo, venne eseguita dal cardinale in favore di suo padre Pier Luigi Farnese, già nominato dallo figlio: Capitano generale delle truppe pontificie, incaricato di sorvegliare la costa, Confaloniere di Santa Romana Chiesa, duca di Castro e nel 1545 per successione Duca di Parma.

Sotto la gestione farnesiana furono continuati anche da papa Carlo V i privilegi accordati alcune centinaia di anni prima da Sisto IV, durante il periodo del fervente monachesimo nelle isole Pontine. Oltre ai già noti privilegi vennero assicurati ai ponzesi, anche il privilegio di non poter essere giudicati e arrestati se non reo confessi, e che tutti coloro che avessero cercato asilo sull’isola giovavano della grazia per qualsiasi reato avessero commesso. Tutti questi privilegi vennero denominati “Privilegi Farnesiani”, ed avevano come caratteristica l’assoluta mancanza di scrupoli da parte delle autorità pur di mantenere l’isola popolata. Purtroppo i privilegi dati agli isolani furono un arma a doppio taglio. La mancanza di un autorità giuridica, di un garante della legalità, e le continue scorrerie dei pirati, furono motivo per cui l’isola non riuscì mai decollare economicamente, essendo purtroppo solo popolata da malviventi, più abituati a imbrogliare e rubare che a produrre e lavorare.

La gestione dell’isola iniziò con obbiettivi difficili da raggiungere. L’impresa maggiore era rappresentata dai pirati (Vedi la sezione “L’epoca dei pirati”) e poi dalla bassa lega di cui erano fatti gli abitanti dell’isola, che remdevano l’isola ingestibile. Il periodo storico sfavorevole, e le scelte non felici dei Farnese, lasciano come memoria all’isola solo i “Privilegi farnesiani”.

La dominazione farnesiana durò fino alla prima metà del XVIII secolo. La discendenza Farnese si avviava verso un interruzione della discendenza maschile e l’instabile situazione politica internazionale, portò il piccolo ducato di Parma a dover concordare la succesione. Con il trattato di Londra del 1718: Inghilterra, Francia, Olanda e L’impero Austriaco, stabilivano che , in caso di interruzione della discendenza maschile, la successione spettava al discendente di Elisabetta Farnese, seconda moglie di Filippo V di Spagna, e cioè Carlo di Borbone.

Il 20 gennaio 1731 Carlo di Borbone diventa re di Napoli e tre anni dopo, il 15 giugno 1734 acquisisce ogni diritto sulle proprietà de Farnese, comprese le Isole Ponziane; che passano integralmente ai Borbone. Il periodo borbonico segnò il passaggio da feudo farnesiano, a patrimonio privato borbonico.

Con i Borboni le isole dopo secoli di miseria, violenza e spopolamento, vivono un periodo sociale tranquillo ed economicamente più redditizio. Le ragioni dello sviluppo erano: la politica borbonica che realizzo opere sulle isole, lo sviluppo dell’attività cantieristica aiutata dalla presenza di boschi sulle colline, e non poco importante; la diminuzione dell’attività dei pirati nei dintorni dell’isola che consentì di sviluppare l’attività peschereccia e la raccolta del corallo.

Il regno di Carlo III durò 24 anni, e quando il 6 ottobre 1759 diventò re di Spagna cedette il trono al figlio Ferdinado IV di Napoli, che come titoli aveva anche il “III di Sicilia e I delle due Sicilie”. L’obbiettivo del nuovo re era di continuarte a fare delle isole pontine delle floride colonie. Venne programmato, un piano di interventi pubblici da affidare al Maggiore Antonio Winspeare con la collaborazione dell’architetto Francesco Carpi , consentendo così di portare a termine la politica del ripopolamento sostenendo uteriormente la crescita economica da rendere le isole quasi autosufficienti.

Per incentivare il ripopolamento dell’isola i Borboni concessero in enfiteusi perpetua la terra ai contadini, il numero di questi ultimi era molto esiguo, e come ulteriore incentivo, ai nuovi coloni venne concesso di costruire delle piccole abitazioni a spese delle casse reali. Inoltre gli attrezzi per lavorare venivano acquistati dal governo per poi essere venduti ai contadini che li avrebbero pagati in comode rate. Cosa sicuramente eccezzionale per l’epoca.
I primi coloni del 1700

La prima colonizzazione dell’epoca “moderna” verso le isole Pontine avvenne, il 30 Ottobre 1734, ed esattamente quando Elisabetta Farnese cedette i diritti sulle isole a suo figlio Carlo. Le migrazioni verso l’arcipelago durarono quasi tutto il 1700 e l’ultima zona ad essere colonizzata fu la zona di “Le Forna”. Come l’attuale centro frutto di una lenta ma precedente colonizzazione, anche Le Forna dovette essere attrezzata. L’impresa fu un po più ardua del previsto, poiché nella zona dell’attuale porto vi erano delle opere anticamente costruite che comunque hanno reso più facile l’opera.

MIGRAZIONI VERSO PONZA

Da Ischia verso Ponza porto

1734

Migliaccio – Tagliamonte – Mazzella – Conte – D’Atri Coppa – Scotti

Da Torre del Greco verso “Le Forna”

1772

Vitiello – Rivieccio – Romano – Aprea – Balzano-Sandolo Feola

Naturalmente vi sono anche altre famiglie che provenivano non solo da Ischia e Torre del Greco ma anche dall’interno della regione Campania di cui non vi è traccia documentata.

La prima opera che venne realizzata alle forna fu “Forte Papa” un piccolo fortino come postazione di avvistamento e difensiva del capo nord dell’isola. La seconda e opera fu la realizzazione dell’attuale strada che collega: Le Forna a Ponza Centro con inizio dei lavori datato intorno al 1772. Naturalmente questa seconda opera va valutata con le dovute proporzioni rispetto la strada attuale.

Altra opera fu lo scavo di una scalinata a picco sul mare di 350 gradini, che porta dalla zona dell’attuale chiesa di Le Forna alla piccola baia di “Cala d’inferno”. La funzione di questa scala era di permettere ai fornesi di avere approvvigionamenti anche via mare, poichè lo sbarco delle merci avveniva nel porto di Ponza e la consegna sull’altro lato dell’isola via terra doveva sfidare pendenze eccessive de inusuali anche per piccoi carri.

Nel 1758 Ferdinado di borbone concesse in enfiteusi anche Palmarola ai primi 31 coloni che erano arrivati a Ponza. La colonizzazione di Palmarola però non fu così semplice sopratutto per le condizioni proibitive dell’isola, infatti rimase solo un progetto parzialmente realizzato. Nel 1779 vengono completate le ultime opere murarie del porto che durano fino a tutt’oggi.

Da quest’ultimo privilegio si può notare come i primi coloni ebbero notevoli vantaggi rispetto agli altri. I primi poterono scegliersi i terreni migliori e più fertili, con ottima esposizione al sole e facilmente raggiungibili. Di conseguenza diventarono tutti contadini avendo notevoli estensioni di terreno da poter sfruttare. Ai secondi invece toccò molto meno e condizioni meno favorevoli e divennero pescatori. L’effetto di queste scelte si è protratto fino all’avvento, nei primi anni ’70 e del turismo.
Il 1800 la nascita di Ponza come Comune

Il piano borbonico di rinnovamento delle isole portò risultati molto positivi nel 1800. Unico neo, fu il notevole aumento dell’importanza strategica dell’isola, che condizionò anche la vita degli isolani. Infatti dai primi del 1800 la vita dell’isola fu strettamente legata alle vicende politiche del continente.

Durante l’assedio di Gaeta del 1806 da parte dei francesi, Ponza divenne un’isola ospedale con i feriti ed i malati che venivano mandati sull’isola per essere curati. Dopo la caduta di Gaeta, Ponza passò sotto il dominio francese con l’insediamento di Giuseppe Bonaparte prima e di Gioacchino Murat poi. L’isola subì soprattutto ad opera di quest’ultimo, notevoli cambiamenti sotto il profilo giuridico. Il 26 Febbraio 1810 l’isola di Ponza diventa comune ed il 10 Marzo 1810 , Murat assegno l’isola al demanio, sottraendolo al patrimonio privato dei borboni conseguentemente all’abolizione del feudalesimo.

La demanializzazione dell’isola e la sua nomina a comune, la svincolarono dal patrimonio familiare borbonico e dal patrimonio dei regnanti di Napoli, ma allo stesso tempo le fece perdere tutti quei privilegi che aveva mantenuto in 350 anni.

Ponza sempre per la sua posizione strategica subì un aggressione anche da parte degli inglesi che la vedevano come un importante punto di riferimento nel mediterraneo. Il 26 febbraio 1813 il comandante Napier con le navi “Furiosa” e “Tamigi” si presentarono nelle acque dell’isola per portare Ponza sotto il dominio inglese. I primi attacchi vennero respinti grazie alla linea difensiva che prevedeva una piccola installazzione di cannoni in località frontone nella zona attualmente detta del “Fortino”, e dai cannoni schierati sualla attuale “Torre dei borboni”. Gli inglesi allora decisero di prendere alle spalle le difese portuali sbarcando a cala d’inferno (Dove già allora vi era l’attuale passaggio), circa 300 uomini salirono dal mare per conquistare il forte di punta Papa lasciato quasi completamente indifeso. Preso il fornte di “punta Papa” tocco all’installazzione di frontone che con l’arrivo degli uomini dalle Forna carichi anche di armi e munizioni depredate nel forte di punta Papa, si trovò accerchiato e dovette dichiarare la resa. Poche ore dopo il solo fuoco di sbarramento della torre fu troppo poco per le navi inglesi, che sbarcavano altri 300 uomini a S. Maria, che una volta unitisi agli altri provenienti dalle Forna puntarono sulla “Torre dei borboni”. Il comandante Dumont vistosi accerchiato, per evitare una carneficina che avrebbe portato comunque inesorabilmente alla sconfitta francese; dopo una breve trattativa, otteneva la resa con gli onori delle armi e l’isola venne lasciata sotto la protezione degli inglesi.

Poco dopo la presa dell’isola, Lord Bentinck comandante delle forze inglesi nel mediterraneo fortificò Ponza. Oltre ad un ulteriore apporto di cannoni sul fortino di Frontone anche la torre dei Borboni e la torre della Ravia vennero sottoposte ad un massiccio armamento. Altre batterie di cannoni vennero piazzate sulla falesia del core e su forte papa . Il campo inglese che tutt’oggi da il nome alla zona fu posizionato in una delle zone più alte dell’isola e permette di avere un ottima visuale sugli approdi sia da est che da ovest, naturalmente il tutto corredato da numerosi cannoni a lungo raggio. Tutte queste fortificazioni servirono a ben poco poiché il 1815 a seguito del trattato di Vienna le isole tornarono ai borboni che però non cambiarono lo status giuridico, mantenendo le isole come comuni e rimanendole al demanio confermando così lo status delle isole a comuni.

L’isola di Ponza in questo secolo fu anche protagonista della sfortunata spedizione che il patriota Carlo Pisacane organizzò per liberare l’Italia. Il 22 Giugno 1857, Carlo Pisacane, Giovanni Nicotera, Giovanni Falcone e 25 emigranti, dopo aver dirottato su Ponza la nave “Cagliari” sulla quale viaggiavano, con un rapido intervento riuscirono a fare prigioniera la piccola guarnigione di istanza sull’isola, obbligando le autorità a liberare 323 galeotti.

L’idea del Pisacane era di guidare alla rivolta i contadini del sud, che invece impauriti per l’arrivo di briganti ed assassini, insieme alle forze militari locali, li attacarono e li sterminarono.

A seguito di questa esperienza, il governo borbonico, decise nello stesso anno della spedizione di Pisacane, di modificare il rapporto che l’isola aveva con la terra ferma. Venne attivato il collegamento telegrafico tra: Ponza, Circeo e l’isola d’Ischia, e venne attivato anche un collegamento postale con una nave chiamata la “Messaggiera” che effettuava servizio quindicinale. Il tutto per evitare che si potessero verificare ritardi nei collegamenti e nella diffusione di notizie e informazioni utili per contrastare eventuali attacchi.

Questo secolo segna anche la fine dell’epoca dei comuni e dei piccoli regni. Con la definitiva resa di Gaeta il 13 febbraio 1861 all’esercito piemontese, che stava per unificare l’Italia, Ponza diventò comune del neo REgno d’italia ed il 2 giugno 1861 si svolsero le prime elezioni unitarie.
Il 1900 e l’emigrazione

L’arrivo del 1900 segna un punto di svolta per l’isola sotto il profilo dei collegamenti, resi più stabili da un servizio regolare di trasporto con la terra ferma. Il 20 giugno 1904 la nave “Lampo” della compagnia SPAN iniziò a percorrere la linea: Anzio – Ponza – Napoli. Il collegamento, contribuì a ridurre l’isolamento. Però Anche Ponza rimase coinvolta nella crisi che affliggeva il sud Italia, ed il viaggio sulla nave “Lampo”, fu il primo che i ponzesi dovevano affrontare per emigrare verso luoghi ritenuti più vivibili. Ponza già aveva vissuto nel passato flussi migratori che sono registrabili in piccole quantità a partire dal 1880 con persone dirette in Sardegna e nelle americhe, sia del sud che del nord. Ma con il migliorare dei collegamenti, migliorò anche l’afflusso di informazioni sopratutto via posta, che descrivevano la vita in quei luoghi anche se difficile, piena di opportunità.

Gli eventi politici come la prima guerra mondiale, l’avvento del fascismo prima e la seconda guerra mondiale dopo, creavano non pochi problemi di convivenza, sopratutto dovute alla scarsa qualità di vita. E questi fattori concorsero fortemente alla spinta migratoria fuori dall’isola. La maggior parte delle migrazioni si diresse verso il continente americano, sopratutto verso: USA, Argentina e Canada. Una comunità non trascurabile, si stanziò all’inizio del secolo in Sardegna dove contribuì fortemente alla crescita della città mineraria di Arbatax composta ora nella quasi totalità da immigrati ponzesi e da loro discendenti.

Un dato positivo negli anni dell’emigrazione e appena successivi all’emigrazione, fu la nascita e crescita della flotta mercantile e peschereccia dell’isola. La flotta ponzese raggiunse dimensioni notevoli, tanto che nei registri navali dell’epoca portarono nel 1930 all’iscrizione di 130 imbarcazioni da pesca e commercio per un totale di 10 mila tonnellate.

I collegamenti che legavano Ponza alla terra ferma, spesso furono costellati da eventi luttuosi. Il 21 marzo 1918 affondò “Il Corriere di Ponza” nave di 150 tonnellate dell’armatore Erasmo Vitiello, colpito da un siluro lanciato da un sottomarino tedesco a circa 6 miglia ad est di Zannone. Il 24 luglio 1943 a due miglia ad ovest di Ventotene venne affondato un traghetto di 452 tonnellate della SPAN il “Santa Lucia” ad opera di aerei inglesi. Questo evento fu il più sanguinoso che le isole pontine possano ricordare, e non fu altro che un atto gratuito di crudeltà da parte di quei piloti inglesi che uccisero circa una settantina di persone fra equipaggio e passeggeri.

Nei primi anni del secolo intorno al 1910 vennero mandati al confino sull’isola, in concomitanza della guerra d’Africa, arrivarono anche de libici catturati durante il conflitto. Con l’arrivo della prima guerra mondiale, vennero confinati anche prigionieri politici sospettati di avere idee vicine alla Germania e dell’Austria. Tra il 1921 ed il 1928 sull’isola venne stabilita una guarnigione di disciplina per militari in punizione. Nel 1928 il regime fascista vi creò “La colonia di confino politico” forma molto particolare per esiliare dalla pubblica attenzione i nemici del regime, con alcuni che diventeranno personaggi illustri della politica italiana. Tra i più importanti ricordiamo il compianto Presidente Pertini capo dello stato due volte dal 1978 al 1988 ed altri nomi di antifascisti di spicco come Nenni e Luigi Settembrini. Durante la seconda guerra mondiale vennero esiliati anche personalità politiche slave, greche ed albanesi. Dal 27 luglio al 7 agosto 1943 Benito Mussolini viene relegato a Ponza.

Il confino nel periodo fascista

L’istituzione del confino a Ponza da parte del regime fascista è datata 1928. I primi confinati arrivarono nello stesso anno e vennero alloggiati nel carcere penale borbonico, nel quale Pisacane aveva “reclutato” la maggior parte dei partecipanti alla sua storica e sfortunata impresa a Sapri. Ponza accolse il futuro presidente Sandro Pertini (Arrivò il 10 settembre 1935) e personaggi come: Giorgio Amendola, Lelio Basso, Pietro Nenni, Mauro Scoccimarro, Giuseppe Romita, Pietro Secchia, Umberto Terracini, Zaniboni e tanti altri, insieme ad esponenti slavi e greci, ras etiopici, indipendentisti libici. Molti dei confinati si trovavano negli edifici alle spalle del municipio, e della chiesa tra via Roma e Via Parata, anche se altrettanti si trovavano in altri palazzi ed in molte case private, che accolsero anch’esse gli esiliati. Quasi a tutti i confinati era consentito muoversi in uno spazio ristretto, che andava tra il tunnel di Sant’ Antonio attiguo a via dante, la contrada Guarini e la contrada Dragonara.

La situazione igienica sull’isola in quegli anni era veramente disastrosa. Come attesta la lettera di protesta scritta dal un confinato, Giuseppe Isola, il 12 ottobre 1929 e inviata al Ministero dell’interno: “Da una ventina di giorni tutti i confinati politici, salvo pochissime eccezioni, che alloggiano in abitazioni private, in seguito a disposizioni superiori e nonostante il grave pregiudizio per la loro salute, dormono nell’edificio denominato ‘Bagno’ malgrado non corrispondi affatto, neppure approssimativamente, alle norme più elementari dell’igiene. I locali oltre di essere umidi sono poco arieggiati e vi alloggiano circa duecentosettanta persone, delle quali ottanta in due corridoi. Lo spazio riservato ad ogni confinato è talmente ristretto che non tutti possono tenere presso di loro il corredo personale. Le latrine sono vicinissime ai dormitori ed emanano un fetore insopportabile”.

L’ambiente di Ponza ci viene descritto dal confinato Alfredo Misuri, ex liberale e già deputato fascista, caduto poi in disgrazia per le sue critiche alla dittatura, arrivato sull’isola nel 1930: “Il vero padrone dell’isola era il centurione Memmi, sempre in auge, ad onta dell’insuccesso del processone di Ustica, ma non ancora seniore. Per me il Memmi non ha avuto che sorrisi, ma, certo, era la bestia nera dei confinati, e, se le intenzioni potessero uccidere, egli sarebbe morto mille volte al giorno… Il paese è grazioso e panoramico; la vita vi è più confortevole che ad Ustica, sotto tutti i riguardi, ma una cappa di piombo grava addosso in questo che è veramente un carcere all’aperto… La vita confinaria assume tutt’altro aspetto di quello che aveva ad Ustica. Non più scuola di ‘filosofia’, non più ‘società della nafta’, non più conversazioni nella barberia confinaria che terminavano con una generosa spruzzata di ‘acqua della colonia’. La sola passeggiata da automi sull’arco di cerchio della via principale, percorsa da un capo all’altro cinquanta volte al giorno, ove si incontravano cinquanta volte le stesse persone che facevano come noi. Le stesse mense dei vari gruppi, servivano solo per soddisfare le necessità della vita fisica di chi le frequentava, ma non erano più quei cenacoli politici vivaci che avevo osservato a Ustica”.

I confinati giungevano a Ponza in piccoli gruppi, incatenati fra loro. L’impatto con la nuova vita era devastante. Oltre alla promiscuità nei cameroni, si dovettero adattare alla precarietà dei rifornimenti, alle angherie dei militi, alla mancanza di comunicazioni, alla fame e alla noia. Nonostante le privazioni, i confinati organizzarono biblioteche, mense autogestite, attività artigianali, corsi di studio.

Solo l’umanità dei ponzesi rese meno duro l’esilio – baracche sovraffollate, igiene disastrosa, cibo ed acqua scarsissimi, poche centinaia di metri per la passeggiata, controllo continuo anche di brevi conversazioni. Al momento dell’arrivo, i confinati ricevevano un libretto rosso sul quale erano indicate le 26 regole del confino. Ed i confinati spesso ricambiavano apportando all’isola la cultura che in quegli anni mancava. Tale linea, a lungo andare, non poté non incontrare l’ostilità del regime che intervenne nell’intento di spezzare lo spirito di solidarietà che animava queste attività sia sociali ed in parte commerciali. Si cercarono quindi pretesti a volte completamente inventati al fine di sottrarre ai confinati il controllo di certe iniziative e sopratutto degli esercizi commerciali. Lo spaccio di Ponza fu espropriato dalla direzione della colonia con la scusa infondata di alcuni reclami avanzati dai fornitori. Su questo specifico episodio ecco la lettera di protesta dell’addetto allo spaccio, Ferdinando Gadda, inviata al ministero dell’Interno:
“Il giorno 11 aprile corrente anno a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno, il sottoscritto amministratore dello spaccio confinati politici di Ponza, inviava l’esposto allegato alla presente a codesto ministero per informarlo della presa di possesso e gestione diretta da parte della colonia dello spaccio suddetto e per chiedere la restituzione di esso spaccio ai legittimi aventi diritto e per essi al sottoscritto amministratore godente la fiducia e il consenso della massa dei confinati. Poiché ha motivo di credere che tale esposto non è pervenuto a codesto ministero anche per il fatto che a un mese dalla data di spedizione non gli è ancora stata consegnato il documento di ricevuta ( come ho detto l’esposto fu inviato raccomandato con ricevuta di ritorno) lo scrivente profitta della presenza a Ponza di un ispettore generale di PS per consegnare ad esso, e nella speranza che questa volta giunga a destinazione l’esposto in parola”. Sulla carta, era loro proibito non solo di discutere di politica e fare propaganda, ma anche frequentare pubbliche riunioni, tenere relazioni con donne o ubriacarsi. Ma almeno dei primi tempi c’era una certa elasticità, che si irrigidi dopo lo smacco della fuga da Lipari nel 1929 di Carlo Rosselli, Emilio Lussu e Francesco Nitti. Quindi il regime mise in atto misure tese a impedire ogni possibilità di evasione e di comunicazione con l’esterno, incaricando di farle rispettare non solo le forze di polizia e i carabinieri, ma anche la milizia fascista. I confinati ritenuti più pericolosi furono fatti pedinare notte e giorno senza interruzione e la vitàa sull’isola si inaspì maggiormente.

Nel 1939 il trasferimento del confino di massa a Ventotene.

Nel 1942 vengono inviati a Ponza prigionieri greci, albanesi e slavi.

Nel 1943, dopo la caduta del fascismo, per ironia della sorte Mussolini viene condotto prigioniero proprio a Ponza, dove resta dal 27 luglio al 7 agosto

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